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  • – Convegno A.A.T – 26 maggio 2012

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  • Manifestazione (To) Primo maggio 2012

  • Manifestazione (To), 3 marzo 2012

No-Monti day Reportage di Franco Di Giorgi

NO-MONTI DAY – Reportage –

L’irragionevole e irresponsabile proposta del ministro Profumo – quella di aumentare, così, d’emblée, di sei ore, a parità di salario, il già insopportabile e anti-didattico orario cattedra di diciotto ore – ci ha alla fine spinti a partecipare alla manifestazione del 27 ottobre a Roma.

I tre pullman, messi a disposizione dai Cobas, partono dal piazzale di fronte al Cto di Torino venerdì verso mezzanotte. Il tempo è umido e piovoso e le previsioni per l’indomani non sono affatto promettenti. Tutti i mezzi d’informazione lanciano allarmi, sebbene contenuti. Non si sa mai. Si prevede pioggia battente in tutto il centro-nord. Ma, tranne qualche scroscio durante la notte, il giorno dopo, il sabato 27, il sole risplende su tutta la capitale fino a tarda sera. E in effetti non tutti i posti dei bus sono occupati. Anche se non dovrei sentirmi a disagio, mi sento tuttavia un corpo estraneo fra molti operai, specie quelli della Fiat Mirafiori. In essi ritrovo subito quella bonaria semplicità che purtroppo fa difetto agli insegnanti. Nel corteo, che parte da Piazza della Repubblica alle 14.30, dopo aver intravisto qualche politico alla testa del medesimo, faccio un breve tratto di strada accanto a queste ‘tute blu’ e con la mente rivivo il mio passato da operaio, vissuto anche nei presidi notturni dinanzi ai cancelli della Fiat nell’autunno del 1980. Poi, nei pressi di Piazza San Giovanni, mentre un nugolo di ragazzi lascia qualche sigla sulle vetrate delle banche, l’onda avvolgente e protettiva della gente mi trascina verso la parte più viva del corteo. Mi trovo infatti in mezzo agli immigrati, dai quali si innalza continuamente un grido forte e caloroso. E’ la voce degli ultimi, del QQuinto Stato. Una voce commovente che viene percepita da tutti come la propria voce e che quindi accomuna tutti quelli che sono lì in quel momento. Chissà, essa è forse l’eco del richiamo primordiale che è capace di ricreare quel legame di solidarietà che si è dissolto nel tempo, quel legame che accomuna, dice Giorgio Airaudo, gli ultimi (operai, precari, studenti, impiegati, immigrati), dal momento che vivono tutti quanti la medesima condizione di solitudine e di abbandono. Le ragioni che stanno al fondo di questa condizione sono ovviamente agli antipodi di quelle che muovono il populismo della destra berlusconiana, anche se, spiace dirlo, i giornalisti il giorno dopo sembravano più interessati al rituale dei fascisti a Predappio che non alla pacifica manifestazione di Roma.

Ad ogni modo, oltre all’indignazione per quell’irresponsabilità, che ha peraltro contraddistinto un po’ tutti i ministri della Pubblica Istruzione del nuovo millennio (diciamo da Berlinguer sino all’attuale), a darci la carica per affrontare un tale viaggio – nonostante l’età quasi pensionabile – è stata sicuramente l’indolenza di molti colleghi che, presi dalla solita antinomia dell’asino di Buridano, restano paralizzati sia di fronte all’idea inefficace, inutile e dispendiosa dello sciopero (comporta circa 80 euro in meno in busta paga), sia di fronte alla mancanza di forme di protesta alternative realmente incisive. Questa paralisi li rende pertanto automaticamenteproni ad ogni provvedimento che si ponga più o meno chiaramente come fine il peggioramento della loro condizione.

Ora, durante i governi di centro-destra (ma non solo) un tale peggioramento poteva esser letto alla luce di un’ideologia restaurativa o anti-illuministica che si permetteva (con i famigerati articoli 133 e 137 del decreto Tremonti) di effettuare tagli alla cultura adducendo motivazioni di natura economica e finanziaria. Basterebbe  a tal proposito ricordare il «non faremo prigionieri!» che Cesare Previti, il neo ministro della Difesa del primo governo Berlusconi, pronunciò nel 1994 dinanzi alle telecamere quasi come un’idea programmatica.

Con la tempestiva e opportuna defenestrazione del Corifeo d’Arcore e, via via, del suo colorato corteo di coribanti invasati, l’apollineo governo Monti non poteva, per converso e per contrasto, che dare l’impressione di un organo finalmente razionale e dunque fondamentalmente equilibrato e giusto. Le cose con lui dovevano andare, per lo meno dialetticamente, nel senso opposto a quello che esse avevano preso in precedenza.

E invece no. Le cose, almeno per quanto riguarda le faccende di politica interna, procedono nello stesso senso di prima, con in più l’amarezza della disillusione. Dapprima, come si è detto, credevamo che il disagio e il peggioramento delle condizioni fosse attribuibile a questioni di carattere ideologico che venivano, più o meno ad arte, dissimulate dietro a inevitabili manovre economico-finanziarie; ora invece, esaminato in piena luce dai nuovi legislatori, il deterioramento di quelle condizioni in cui versa non solo la categoria dei docenti ma la maggioranza degli Italiani non sembra più riconducibile a ideologie restaurative, ma alla crisi vera e propria.

In quanto ideologi, i primi legislatori utilizzavano la crisi economica come copertura per il loro progetto neo-restaurativo e come giustificazione per effettuare i tagli a quella cultura di cui essi (e in primis il ministro della Pubblica Amministrazione e per l’Innovazione, Renato Brunetta, il Livoroso) intendevano liberarsi, anche, se non soprattutto, al fine di poter fare, come si dice e come è il caso di dire, i loro porci comodi. Ecco, peraltro, il motivo per cui essi non rivelarono quasi mai l’esistenza della crisi sino alla fine del loro impegno diretto nel governo, cioè dal 2008 al 2011. Malgrado il livore acido e vendicativo che spurgava dalle intrattenibili esternazioni anti-illuministiche del ministro Brunetta, i tagli non dovevano apparire come qualcosa di assolutamente utile all’attuazione della rivoluzione ‘liberale’ annunciata nel ’94 al grido (rapinato agli Italiani) di Forza Italia. Ora invece, con il governo Monti, si ha la percezione che dietro a questa crisi non vi sia alcuna ideologia, nessun disegno rivoluzionario, restaurativo o reazionario, se non il sacro dovere di salvare non soltanto il paese da essa, ma di evitare soprattutto che la patria possa inabissarsi in quel gorgo verso cui l’hanno condotta negli anni di navigazione a vista quel manipolo di mozzi schettiniani su un chiassoso bateau ivre.

Ad ogni modo, la scena che, dopo quel novembre (non si sa più però fino a che punto) salvifico, gli Italiani si rappresentano leggendo i diversi quotidiani è quella in cui, alla testa di una équipe di esperti e specialisti, compare e opera un super-tecnico, un ingegnere meccanico della politica, a cui è stato affidato il grave e urgente compito di aggiustare un automezzo (in realtà l’automobilina di una giostra nazionale) che i precedenti proprietari hanno usato fino quasi al punto da portarlo dallo sfasciacarrozze, e che però mentre armeggia sul motore, delicatamente o duramente, con le sue speciali pinze e le luccicanti chiavi, alcuni bambini, i suoi stessi figli, giocano a far la guerra con il corpo del paziente padre, rendendogli così più difficile la sua tanto urgente quanto inderogabile azione riparatrice. Talora, quando questi suoi maldestri figlioli, di solito occupati con l’abbecedario, gli arrecano più disturbo del solito, egli li riunisce brevemente in un angolo o nel retro dell’officina e racconta loro, con tutta la calma, la lentezza e la pazienza di cui è capace, la storia a cui essi non resistono e non riescono a sottrarsi. C’era una volta, non molto tempo fa, – precisa il capo officina, con voce lenta, ma ferma e forte come l’espressione delle sue mani – un paese in cui ai cittadini era consentito vivere al di sopra delle loro possibilità. Essi hanno avuto molto. Anzi, troppo. Ora è giunto il tempo in cui devono dare. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia dunque benedetto il nome del Signore. Incantati e persuasi da questa semplice ma efficace storiella, i fanciulli lasciano in pace il loro padre e tornano a trastullarsi con il loro abbecedario, mentre il meccanico della politica, dopo averli così paternamente consolati, può tornare fiducioso al suo difficile lavoro.

Fuor di metafora, la colpa della vostra attuale sofferenza non è dunque mia, lascia intendere il presidente Mario Monti agli Italiani, ma di quei governanti che in passato, pur non potendo, vi hanno abituati a vivere  secondo ritmi e possibilità che non vi potevano competere. Ricordate la canzone del 1957 di Renato Carosone? Tu vuo’ fa’ l’americano, ma se’ nat’ in Italy. Avete avuto troppo, e questo troppo era reso possibile da un crescente indebitamento che i precedenti governi, pur di garantirsi la loro rieleggibilità, hanno contratto con i creditori. Già, in passato, fin dall’epoca dei governi di pentapartito, si sentiva ogni tanto dichiarare da qualche ministro o portavoce – ma detto proprio en passant – che questo debito pubblico cresceva sempre di più, ma che  non costituiva affatto un problema, o perlomeno non era l’unico vero problema per l’Italia.

La questione del debito pubblico, come questione cruciale non solo italiana, è venuta fuori in tutta la sua gravità con l’istituzione e la diffusione dell’euro, della moneta unica europea, tra il 1999 e il 2002, giacché per mettersi alla pari con l’effettivo valore della nuova moneta, l’Italia, come gli altri paesi dell’euro-zona, doveva prima estinguere tutto quanto il debito che aveva allegramente accumulato  negli anni. Un debito che al 31 dicembre 2011 ammontava a 1.897.179 milioni di euro e da cui nessun Italiano, presente e futuro, può e potrà sottrarsi, almeno in proporzione al reddito percepito, secondo quanto recita il primo comma dell’articolo 53 della Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Ma anche qui, per preservare il loro potere, tutti i governanti hanno astutamente evitato di mettere mano seriamente alla riforma fiscale, sicché quel debito anziché diminuire, per mancanza di entrate, finiva col crescere.

Questo in buona sostanza significa che tutta la nostra storia economica e sociale, la storia relativa al costo e al diritto al lavoro, come pure tutta la politica italiana ad essa relativa, a partire almeno dal 1970, ossia dall’istituzione dello Statuto dei lavoratori, essendosi sviluppate sulla base di quel debito, di quella cambiale, di quell’assegno in bianco, sulla scorta cioè di un’impossibilità, di una velleità, e quindi di un’illusione, di una speranza, di una menzogna, di un auto-inganno, non possono essere altro che sfalsate e irreali. Ma se è così, la responsabilità per una siffatta irrealtà e per la conseguente infondatezza di questa storia italiana riguarda tutti quanti i suoi principali protagonisti, non solo alcuni. Da una prospettiva dialettica, la responsabilità è certamente anche del popolo italiano che non ha saputo denunciare con adeguata forza quel pericoloso debito, ma in primis, ovviamente, una tale responsabilità è dei politici e, a seguire, degli economisti, dei finanzieri, degli industriali, dei sindacalisti e degli intellettuali. Tutti costoro, infatti, sapevano della grande bolla d’aria su cui stavano costruendo quella (prima) Repubblica democratica, eticamente e giuridicamente prefigurata dalla Costituzione, e non hanno fatto abbastanza per evitare il rischio che un giorno o l’altro, a fronte di certe condizioni, quella sorta di aneurisma finanziario potesse esplodere.

Ammesso dunque che la nostra storia si radichi su simili presupposti velleitari, i quali, sul piano della realtà, hanno nel tempo determinato le conseguenze che sono davanti agli occhi di tutti, tutti, secondo le attese e secondo il principio di equità che la ratio apollinea del governo Monti aveva concepito all’inizio del suo lavoro, dovremmo essere chiamati a porvi rimedio. E invece no. Ancora una volta no. A pagare questa crisi sono stati chiamati gli stessi di sempre. Ma che governo è allora quello che non riesce a far pagare il dovuto anche a chi non l’ha mai pagato? Troppo facile è per esso continuare a chiedere il conto a chi non può esimersi dal farlo, cioè ai dipendenti statali. Questo comportamento non è solo ingiusto, è anche irresponsabile ed eticamente scorretto. Ingiusto perché non rispetta il principio di equità che pur aveva annunciato; irresponsabile perché la risposta che ha dato e che continua a dare non è affatto adeguata al paese; eticamente scorretto perché il comportamento da esso adottato non è coerente con le intenzioni, ma ingannevole e illusorio. Probabilmente la paura di questo governo è che, colpendo con durezza (con lo strumento dell’imposta patrimoniale) gli imprenditori, questi, ispirandosi al modello Marchionne, possano spostare da un giorno all’altro baracche e burattini in paesi ove il costo del lavoro è, per ragioni storico-sociali, di molto inferiore a quello italiano, creando così ulteriore miseria. Colpendo con durezza le banche, inoltre, queste finirebbero col perdere il privilegio che hanno acquisito nel tempo, ossia di essere degli ‘strozzini’ legalizzati. Intervenendo con durezza sulla corruzione, la politica (a tutti i livelli) piano piano si estinguerebbe, poiché non potrebbe più fare i suoi loschi affari con le cosche. Più che aggiustare, rifare o truccare il motore, si dovrebbe dunque a questo punto cambiare non solo il meccanico, ma anche la macchina e possibilmente gli stessi autisti. Ecco, in ultima analisi e in estrema sintesi, quanto probabilmente si aspetterebbero tutti quelli che sono accorsi alla manifestazione del No-Monti Day.

Franco Di Giorgi

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